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Cronaca

JESI Gianluca Grechi: «Essere primario dopo mio padre è un’emozione indicibile»

«Lavoriamo al servizio della comunità come sempre, facendo in modo che il virus stia lontano dal mio reparto», dice il  direttore Uoc di Ginecologia e Ostetricia del “Carlo Urbani” che ha seguito le orme del genitore

JESI, 12 aprile 2020 – Il dottor Gianluca Grechi porta un nome importante. Al “Carlo Urbani” di Jesi è primario del reparto di Ginecologia e Ostetricia.

Nella nostra chiacchierata mi ha messo subito sul tavolo la carta dell’emozione e dei ricordi. È stato, fino a poco più di un anno fa, primario al “Salesi” di Ancona, ma Jesi, per lui, è speciale. Il nome di suo padre, Giuseppe, è rimasto nella memoria di quanti sono nati all’ospedale civile di Jesi. Un uomo all’apparenza taciturno e timido, in realtà scrupoloso, professionale come pochi altri e dalle doti umane indimenticabili. Con lui sono nati i miei figli, con lui ho capito cosa significa il servizio per l’intera comunità e la dedizione assoluta. Un uomo d’altri tempi. E Gianluca la gioca subito, questa carta, lui che ha intrapreso la stessa strada.

«Per me essere primario a Jesi, dopo Peppino Grechi – dice – è un’emozione indicibile. Per l’enorme stima che avevo verso di lui, per quello che aveva fatto per l’ospedale, per la sua instancabilità. Pensa che per lui non esistevano giorno o notte, c’era addirittura la leggenda che operasse, visto il carico di lavoro cui si sottoponeva, con la flebo. Un aneddoto. Una paziente mi ha raccontato che mio padre le disse: Signora, la vedo domani alle 6. Lei andò alle 18 in ambulatorio, non lo trovò e quando si parlarono lui le disse: Signora, io intendevo alle 6 del mattino. Aveva intorno a sé, come i colleghi degli anni in cui ha lavorato qui, un alone di signorilità professionale. Noi medici oggi abbiamo, basta leggere i giornali, una triste sorte. Ci distruggono la sala d’attesa se debbono aspettare, ci prendono per il collo come se fossimo dei mascalzoni. Ma, guarda caso, improvvisamente tutto è cambiato dall’inizio della pandemia. Oggi ci considerano “eroi”, ma quali eroi, noi lavoriamo al servizio della comunità come abbiamo sempre fatto. Cerchiamo solo di fare al meglio il nostro lavoro. Mi sono avvicinato alla medicina perché c’è stato mio padre che ha tracciato la linea, era destino. Ricordo che eravamo a casa, sotto le feste di Natale, avevo 15, 16 anni. Squilla il telefono e mio padre si veste subito per correre in ospedale. Mi fa: “Dai Gianluca, accompagnami, vieni con me”, ed è stata la prima volta che sono entrato in sala operatoria. Da lì è nata la mia vita e l’emozione più grande è stata aver operato insieme a lui, appena specializzato, a Villa Serena. Una emozione bellissima, ero di fronte a un padre che era anche il mio Maestro».

E oggi il tuo reparto al “Carlo Urbani” è quasi una specie di fortino inarrivabile

«Devo fare in modo che il virus stia lontano dal mio reparto. Continuiamo incessantemente a fare il nostro lavoro, seguire le donne nella gravidanza, nel percorso travaglio e nel parto. Stop. Tutto rigorosamente in aree no-Covid. Se dovesse capitare una gestante Covid, c’è un percorso dedicato a questo genere di parti.  Essendo tutto l’iter, dal travaglio al parto, un percorso in cui l’ostetrica o il medico non possono stare a un metro di distanza dalla paziente, è normale che noi indossiamo i dispositivi di protezione individuale. Anzi, è obbligatorio. In sostanza, il nostro personale è dotato di mascherina Ffp2, gli occhiali, il camice, i calzari e i guanti. Ho fatto blindare, in sostanza, il reparto, non faccio entrare mariti o compagni perché, come saprai, i peggiori untori sono gli asintomatici. Il tampone va fatto solamente ai sintomatici, cioè quelli che presentano o tosse persistente, febbre o problemi respiratori, oppure sono stati in contatto con soggetti a rischio».

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Trovarsi in un mondo in guerra contro un nemico invisibile, che procura morte, e trovarsi a dare una vita ad una nuova esistenza, non ti cambia la vita?

«Sì, una sensazione che ti pervade, straordinaria. Non possiamo attaccarlo, questo nemico, perché non lo vediamo? Bene, allora a tutto il mio gruppo ho detto: “Ragazzi, dobbiamo difenderci, e difendersi sta a significare meno contatti e protezioni individuali”. Se sei rigoroso e riesci a proteggerti coi mezzi a tua disposizione, limiti i danni. In questo momento, che è epocale, ci troviamo di fronte al problema di garantire e salvaguardare la vita dando il nostro massimo. Delle nostre mamme, ovvio, dei nostri bambini e di tutto il personale che a loro si affida».

Ci si trincera per far nascere una nuova vita, ci si barrica, perché un bambino è sacro…

«Certo, siamo barricati. Ma non essendoci, vicino alla gestante, il partner o il marito, si crea ancora di più questa simbiosi con il medico o con l’ostetrica. Siamo ancor più partecipi, perché in quel momento la futura mamma si affida totalmente alla tua sensibilità e alla tua professionalità. La donna è sola, il partner o il marito non possono essere fisicamente accanto a lei. Ho detto, sin dall’inizio, a tutti i miei amici e collaboratori: “Io voglio salvaguardare la salute di tutti coloro che vengono qui. E di quanti sono accanto a me, ovviamente”. La mia è una bella squadra, che segue le regole e la linea tracciata senza alcun problema. Basta una piccola falla nel meccanismo e si può creare un contagio, può nascere una patologia che noi dobbiamo escludere sin dall’inizio».

Dopo quanti giorni le pazienti ritornano a casa con il loro piccolo, nuovo tesoro?

«Di solito dopo un paio di giorni, e chi, fuori di qui, li accoglie, accoglie due persone sanissime. Il marito o il compagno, anche se hanno avuto contatti minimi, potranno vivere questa esperienza unica, che racconteranno ai loro figli, di essere nati nel periodo del coronavirus. Posso affermarti con orgoglio che nessuna paziente ha mai discusso la mia rigidità, tutte sono passate a salutarmi affettuosamente. È la soddisfazione più grande che le mamme mi possano dare. Certo, abbiamo messo a disposizione delle pazienti e dei congiunti tablet attraverso i quali interagire e parlarsi. Per esempio, non appena l’ostetrica esce dalla cosiddetta zona controllata travaglio-parto, c’è subito fuori il papà che lo vede mentre fa i soliti esami di routine. Sarà una frase fatta ma non bisogna mai, in circostanze come questa, abbassare la guardia».

Quanti bimbi sono nati?

«Nel primo trimestre, fino a oggi, 215. Ma quanti sono nati nel “periodo”, non saprei, ci siamo accorti che il nemico stava avanzando piano piano, e da subito, prima che arrivasse, abbiamo impostato i reparti e il nostro lavoro. Diciamo un lavoro preventivo che ha dato i suoi frutti. Una rigidità e un rigore che hanno premiato, qui al “Carlo Urbani”».

Giovanni Filosa

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